Ricorso del Presidente della Repubblica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato (c.f. 80224030587), PEC roma@mailcert.avvocaturastato.it, presso i cui uffici ex lege e' domiciliato in Roma alla Via dei Portoghesi n. 12, giusta decreto presidenziale in data 16 luglio 2012 (doc. 1) avente ad oggetto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato; Nei confronti del Pubblico Ministero in persona del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale Ordinario di Palermo in relazione all'attivita' di intercettazione telefonica, svolta nell'ambito di procedimento penale pendente dinanzi alla Procura della Repubblica di Palermo, effettuata su utenza di altra persona nell'ambito della quale sono state captate conversazioni del Presidente della Repubblica. Fatto Con nota in data 27 giugno 2012 prot. n. 069/s.p., l'Avvocato Generale dello Stato chiedeva al Dottor Francesco Messineo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, avendone ricevuto espresso mandato dal Segretario Generale della Presidenza della Repubblica, «una conferma o una smentita» di quanto risultava nell'intervista effettuata dalla giornalista Alessandra Ziniti al P.M. Antonino Di Matteo e pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» del 22 giugno 2012 (doc. 2), dalla cui risposta emergeva che sarebbero state intercettate conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica allo stato considerate irrilevanti, ma che la Procura di Palermo si sarebbe riservata di utilizzare (doc. 3). Con nota in data 6 luglio 2012, il Procuratore Messineo allegando la missiva in data 5 luglio 2012 (doc. 5) con la quale il Dott. Di Matteo rappresentava che le affermazioni, pronunciate nel corso di un'intervista telefonica con la giornalista Ziniti, erano conseguenza di una domanda di quest'ultima assolutamente generica sulla sorte processuale del compendio delle intercettazioni effettuate nell'ambito di indagini, limitandosi «all'ovvio richiamo alla corretta applicazione della normativa in tema di utilizzo degli esiti delle attivita' di intercettazione telefonica», comunicava che la Procura di Palermo, «avendo gia' valutato come irrilevante ai fini del procedimento qualsivoglia eventuale comunicazione telefonica in atti diretta al Capo della Stato, non ne prevede alcuna utilizzazione investigativa o processuale, ma esclusivamente la distruzione da effettuare con l'osservanza delle formalita' di legge» (doc. 4). Con nota diffusa il 9 luglio 2012 (doc. 6) e con lettera pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» in data 11 luglio 2012 (doc. 7), il Procuratore Messineo ulteriormente affermava che «nell'ordinamento attuale nessuna norma prescrive o anche soltanto autorizza l'immediata cessazione dell'ascolto e della registrazione, quando, nel corso di una intercettazione telefonica legittimamente autorizzata, venga casualmente ascoltata una conversazione fra il soggetto sottoposto ad intercettazione ed altra persona nei cui confronti non poteva essere disposta alcuna intercettazione». Aggiungeva, inoltre, che «in tali casi, alla successiva distruzione della conversazione legittimamente ascoltata e registrata si procede esclusivamente, previa valutazione della irrilevanza della conversazione stessa ai fini del procedimento e con la autorizzazione del Giudice per le indagini preliminari, sentite le parti. Cio' e' quanto prevedono le piu' elementari norme dell'ordinamento ...» Il Presidente della Repubblica non ritiene di poter condividere la tesi del Procuratore della Repubblica, in quanto, a norma dell'art. 90 della Costituzione e dell'art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219, salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento d'accusa, le intercettazioni delle conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorche' indirette e occasionali, sono, invece, da considerarsi assolutamente vietate e non possono, quindi, essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione. Comportano, quindi, lesione delle prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione, l'avvenuta valutazione sulla rilevanza delle intercettazioni ai fini della loro eventuale utilizzazione (investigativa o processuale), la permanenza delle intercettazioni agli atti del procedimento e l'intento di attivare una procedura camerale che - anche a ragione della instaurazione di un contraddittorio sul punto - aggrava gli effetti lesivi delle precedenti condotte. In virtu' del decreto in epigrafe del Capo dello Stato, l'Avvocatura Generale eleva, pertanto, con il presente ricorso, conflitto ai sensi degli artt. 37 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87, per violazione degli articoli 90 e 3 della Costituzione e delle disposizioni di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione (art. 7 della legge 5 giugno 1989, n. 219, anche con riferimento all'art. 271 del codice di procedura penale). Diritto 1. Sull'ammissibilita' del ricorso. 1.1. Sotto il profilo soggettivo. La spettanza della qualificazione di potere dello Stato in capo al Presidente della Repubblica, odierno ricorrente, e' del tutto pacifica. Per quanto concerne la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, appare sufficiente richiamare l'insegnamento di codesta ecc.ma Corte in ordine alla competenza del Procuratore della Repubblica di dichiarare definitivamente la volonta' del potere a cui appartiene ed alla individuazione in capo al Pubblico Ministero della natura di potere dello Stato in quanto titolare diretto ed esclusivo dell'attivita' di indagine finalizzata all'esercizio (obbligatorio) dell'azione penale (sentenze della Corte costituzionale n. 216 e 420/95; 118/98; 410/98; 487/00; 232/2003; n. 100/2009; ordinanze n. 124/2007; n. 425/2007, n. 241/2011). (1) 1.2. Sotto il profilo oggettivo. Il Presidente della Repubblica rivendica, con il presente atto, con riguardo all'attivita' istruttoria di intercettazione svolta dalla Procura di Palermo, l'integrita' delle proprie prerogative costituzionali previste dall'art. 90 della Costituzione secondo cui «il Presidente della Repubblica non e' responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi e' messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». In coerenza con le prerogative previste dal citato art. 90 della Costituzione, l'art. 7, comma 3, della legge 5 giugno 1989, n. 219 citata, contempla il divieto assoluto di intercettazione e di altri mezzi di acquisizione della prova invasivi, stabilendo che, nei confronti del Presidente della Repubblica, non possono essere adottati i provvedimenti indicati nel comma precedente (tra i quali quelli in materia di «intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazioni») se non dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica. Il conflitto in esame ha, dunque, per oggetto essenzialmente la corretta interpretazione dell'art. 90 della Costituzione ed anche della disposizione dell'art. 7, comma 3, della legge n. 219/1989 citata, di diretta attuazione ed integrazione della norma costituzionale predetta. La controversia si incentra, infatti, proprio sull'ambito di estensione dell'immunita', che, a proposito del regime delle intercettazioni, le norme citate riservano al Presidente della Repubblica. Si ritiene, infatti, che la intercettazione, l'ascolto, la valutazione, la utilizzazione o la distruzione con la procedura prevista dall'art. 268 c.p. finirebbe per ledere le prerogative contemplate dall'art. 90 della Costituzione con riferimento all'insieme delle modalita' attraverso le quali il Presidente della Repubblica esercita le delicate funzioni attribuitegli dalla Costituzione, tra cui quelle di massima rappresentanza a livello internazionale. Non vi e' dubbio, pertanto, che, anche sotto il profilo oggettivo, ricorrano i presupposti di cui all'art. 37 della legge n. 87/1953 citata. 2. Nel merito: violazione dell'art. 90 della Costituzione e delle disposizioni legislative che ne costituiscono attuazione ed integrazione, nonche' dell'art. 3 della Costituzione. 2.1. Come sottolinea la dottrina in sede di commento alla norma costituzionale, l'irresponsabilita' del Presidente della Repubblica non e' solo una irresponsabilita' giuridica per le conseguenze penali, amministrative e civili eventualmente derivanti dagli atti tipici compiuti nell'esercizio delle proprie funzioni, ma anche una irresponsabilita' politica diretta a garantire la piena liberta' e la sicurezza di tutte le modalita' di esercizio delle funzioni presidenziali. Cio' comporta l'assoluta riservatezza di tutte le attivita' del Presidente della Repubblica che sono propedeutiche e preparatorie rispetto al compimento degli atti tipici e pubblici attraverso i quali esercita formalmente i propri poteri (2) : si tratta, dunque, di una immunita' sostanziale e permanente imputata all'organo costituzionale e posta a protezione della persona fisica che ne e' titolare. La dottrina ha anche osservato che non ha molto senso chiedersi se la (ir)responsabilita' politica costituisca la regola o l'eccezione (3) , per la scelta inequivocabile fatta dal diritto positivo, che ha sancito il principio del necessario collegamento fra irresponsabilita' ed esercizio della funzione. Le funzioni del Presidente della Repubblica sono strettamente connesse e vanno interpretate con il ruolo, che la Costituzione gli attribuisce, di Capo dello Stato, rappresentante dell'unita' nazionale. La sottrazione del Presidente della Repubblica alla responsabilita' anche politica e' stabilita in funzione di tale ruolo e non certo per escludere la «politicita'» della sua azione diretta ad assicurare in modo imparziale, insieme agli altri organi di garanzia, il corretto funzionamento del sistema istituzionale e la tutela degli interessi permanenti della Nazione (4) . Deve, in conclusione, ribadirsi che la sfera di immunita' che la Costituzione riserva al Capo dello Stato non costituisce un inammissibile privilegio, legato ad esperienze ormai definitivamente superate. Al contrario, le prerogative che la Costituzione attribuisce al Capo dello Stato sono strettamente funzionali agli altissimi compiti che e' chiamato a sostenere nell'espletamento della citata funzione di garanzia complessiva del corretto andamento del sistema che egli esercita, mantenendo, appunto, l'unita' della Nazione. E' del tutto evidente che, nell'espletamento di questi compiti, al Presidente della Repubblica deve essere assicurato il massimo di liberta' di azione e di riservatezza, appunto perche' alcune attivita' che egli pone in essere, e certamente non poco significative, non hanno un carattere formalizzato. Il perseguimento delle finalita' costituzionali caratterizza, dunque, l'attivita', sia formalizzata sia non formalizzata, del Presidente della Repubblica connotandola in senso funzionale, cosi' che la protezione derivante dall'immunita' prevista dall'art. 90 della Costituzione ricomprende tutti gli atti presidenziali, nei quali siano appunto rinvenibili quelle finalita'. La Costituzione ha, in effetti, delineato un equilibrato rapporto tra poteri e responsabilita' ed in questa ottica garantista l'immunita' del Presidente della Repubblica non puo' essere affatto considerata come un'inammissibile rottura del principio dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, ma come strumento indispensabile per consentire il piu' efficace conseguimento degli obiettivi prefissati in Costituzione. L'immunita' si configura, quindi, come un essenziale strumento di garanzia dell'attuazione della Costituzione ed, in questa ottica, deve essere interpretata nel raffronto con la legislazione ordinaria, che, come e' noto, va sempre applicata in modo costituzionalmente orientato. Com'e' stato osservato in dottrina (5) , l'art. 90 della Costituzione rappresenta, infine, al tempo stesso, anche un limite alle attribuzioni degli altri poteri dello Stato che, ove non correttamente esercitati, menomerebbero le prerogative costituzionali del Presidente della Repubblica (6) . 2.2. Anche dall'interpretazione sistematica delle norme di legge ordinaria che disciplinano, in attuazione dei principi costituzionali, la posizione del Presidente della Repubblica deriva, per quanto qui interessa, che la liberta' di comunicazione non possa subire alcuna limitazione neppure da parte di altra Autorita'. (7) . L'inviolabilita' delle determinazioni e delle comunicazioni del Presidente durante il mandato e' espressamente riconosciuta dall'art. 7, comma 2, della legge 5 giugno 1989, n. 219 citata, significativamente intitolata «Nuove norme in tema di reati ministeriali e di reati previsti dall'articolo 90 della Costituzione», articolo contenuto nella fonte legislativa connessa alla norma costituzionale predetta e che assume il ruolo integrativo di quest'ultima. La norma di cui all'art. 7, comma 3, della legge citata, contiene l'espresso e assoluto divieto di disporre intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione nei confronti del Presidente della Repubblica senza prevedere alcuna eccezione e consente le intercettazioni solo dopo che la Corte costituzionale ne abbia disposto la sospensione dalla carica. Va sottolineato che questo divieto assoluto di intercettazione diretta delle conversazioni del Capo dello Stato e' legislativamente ed espressamente stabilito per i due soli reati, per i quali, secondo la previsione dell'art. 90 della Costituzione, puo' essere messo in stato di accusa il Presidente della Repubblica. Se c'e' dunque, in questi casi, un divieto di intercettazione diretta nel periodo in cui il Presidente e' in carica e' naturale che debba esistere anche un divieto altrettanto assoluto delle intercettazioni, qualora fossero captate in modo indiretto o casuale. Quello, infatti, che si desume con assoluta chiarezza dal combinato disposto dell'art. 90 della Costituzione e dell'art. 7, comma 3, della legge 5 giugno 1989 n. 219 citata, e', appunto, l'impossibilita' di intercettare e anche, se del caso, di utilizzare il testo di quelle intercettazioni, proprio perche' il Presidente della Repubblica, anche se messo in stato di accusa, non puo', fino a quando e' in carica, subire alcuna limitazione nelle sue comunicazioni, dato che, altrimenti, risulterebbe lesa la sua sfera di immunita'. Se questa e' la ratio del sistema che impone divieto assoluto di usare e di utilizzare tali mezzi di prova riguardo ai reati presidenziali, lo stesso divieto di uso e di utilizzazione dei medesimi mezzi di prova, certamente limitativi della liberta' di comunicazione del Presidente, non puo' logicamente, anche nel silenzio della legge, non estendersi ad altre fattispecie di reato che possano a diverso titolo coinvolgere il Presidente. Ed ancor piu' inammissibile e' la possibilita' di utilizzazione di conversazioni intercettate occasionalmente nell'ambito di fattispecie riguardanti reati che non possono essere addebitati al Presidente, come, appunto, si verifica nel caso del conflitto in esame. Quando coinvolgono in qualsiasi pur minimo modo il Presidente della Repubblica, le indagini devono svolgersi, pertanto, nel rispetto delle sue prerogative costituzionali, evitando quelle forme invasive di acquisizione della prova che non si conciliano con la sua assoluta liberta' di determinazione e di comunicazione. Tali considerazioni portano a concludere che il divieto di intercettazione riguarda anche le c.d. intercettazioni indirette o casuali comunque effettuate mentre il Presidente della Repubblica e' in carica. 2.3. Se, dunque, il divieto di intercettazioni e' la conseguenza diretta dell'immunita' presidenziale, e' evidente che si debba ritenere la inutilizzabilita' e procedere alla distruzione immediata del testo intercettato, ai sensi dall'art. 271 c.p.p., secondo cui «i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati quando le stesse siano state eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge e il giudice dispone che la documentazione delle intercettazioni...sia distrutta». Anche se non espressamente richiamate dal citato art. 271, valgono a fortiori per il Capo dello Stato le stesse tutele e la stessa disciplina vigenti per l'intercettazione del difensore (art. 103 c.p.p.): un divieto assoluto di esecuzione e un divieto di utilizzazione poiche' si tratta di atto eseguito «fuori dei casi consentiti dalla legge». E cio' in quanto riguarda la captazione di conversazioni che risulta rientrare nel generale divieto sancito dal principio normativo, che si ricava dall'immunita' presidenziale. E infatti e' proprio l'irresponsabilita' prevista dall'art. 90 della Costituzione, cosi' come integrato dalla citata norma ordinaria, a dare vita ad un principio normativo, che si impone all'interprete, in tutti quei casi in cui occorre fare riferimento alla «legge». Ed in questo senso va letto lo stesso art. 15, secondo comma, della Costituzione. Se tutto questo e' vero, e' evidente che alla procedura per la distruzione del frutto della captazione illegittima di una conversazione del Presidente non sono applicabili ne' l'art. 268, comma 4, e seguenti c.p.p. (deposito delle intercettazioni in segreteria del P.M.; facolta' di esame da parte dei difensori; acquisizione delle conversazioni indicate dalle parti, non manifestamente irrilevanti; stralcio delle registrazioni di cui e' vietata l'utilizzazione; inserimento nel fascicolo e possibilita' di estrarre copia delle altre registrazioni); ne' l'art. 269 c.p.p. (conservazione dei verbali e registrazioni; udienza camerale per la distruzione, se richiesta, delle registrazioni e dei verbali non necessari per il procedimento, a tutela della riservatezza); ne' l'art. 270 c.p.p. (utilizzazione dei risultati delle intercettazioni in procedimenti diversi, seguendo le prescrizioni dell'art. 268 citato). Ne', infine, in via analogica, e' applicabile alle intercettazioni indirette o casuali del Presidente della Repubblica l'art. 6 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (che disciplina le intercettazioni indirette o casuali nei confronti di un parlamentare). E' sufficiente osservare in proposito che, sulla base della normativa costituzionale e ordinaria gia' richiamata (artt. 90 della Costituzione e 7 della legge n. 219/89), la posizione del Presidente della Repubblica non puo' essere assimilata a quella del parlamentare. Solo quest'ultimo, a differenza del Capo dello Stato, puo' essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario (ovviamente su autorizzazione della Camera di appartenenza). Al solo parlamentare si riferisce, poi, testualmente l'art. 6 della legge n. 140/2003 citata quando stabilisce la necessita' dell'autorizzazione «successiva» per l'utilizzazione delle intercettazioni indirette o casuali del parlamentare stesso. Il legislatore del 2003 - pur consapevole del clamore sollevato nel 1997 dal caso delle intercettazioni di conversazioni cui aveva partecipato un Presidente della Repubblica - non ha dettato alcuna previsione relativa a tali intercettazioni, presupponendo, all'evidenza, che per esse non puo' valere la stessa distinzione tra intercettazioni dirette e indirette stabilita per quelle dei parlamentari. E, ancora, la Corte costituzionale, nel dichiarare con la sentenza n. 390 del 2007 l'illegittimita' costituzionale parziale dell'art. 6 prima citato, ha stabilito che la necessita' di autorizzazione non si applica quando le intercettazioni occasionali debbono essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal parlamentare (cosi' confermando espressamente che la disciplina della legge n. 140/2003 citata e' applicabile solo alle intercettazioni relative ai parlamentari). Piu' in generale, deve, poi, sottolinearsi la differenza della ratio della tutela del parlamentare rispetto a quella del Presidente della Repubblica per le intercettazioni indirette relative a reati a carico di altri: per il Presidente, la ratio risiede nella tutela della sua funzione; per il parlamentare, invece, nella sola tutela della sua privacy, che sarebbe ingiustificato differenziare da quella di qualunque altro cittadino non essendo in tal caso configurabile un pregiudizio per la funzionalita' della Camera di appartenenza, unico presupposto dell'istituto dell'autorizzazione previsto dall'art. 68 della Costituzione (cfr. la motivazione della sentenza della Corte costituzionale n. 390/2007 citata, paragrafo 5.2 del «Considerato in diritto» in particolare). Di conseguenza, in conclusione, per l'intercettazione di conversazioni del Presidente della Repubblica non ha senso porsi il problema di una loro eventuale utilizzabilita' nel processo in corso o in altri procedimenti (in difesa o a carico di altri soggetti), poiche' cio' vanificherebbe in toto la garanzia funzionale riconosciutagli dagli artt. da 87 a 90 della Costituzione; ne' assume rilievo la distinzione tra intercettazione «diretta» e «indiretta». Concetti, questi, che trovano il loro fondamento nella legge n. 140/2003 citata - insuscettibile, per quanto gia' evidenziato, di applicazione analogica al Capo dello Stato - e che presuppongono l'esistenza di un organo competente a esprimere una autorizzazione preventiva o successiva, nonche' a verificare doverosamente il carattere indiretto o diretto dell'intercettazione. 2.4. Le argomentazioni fin qui sostenute escludono la correttezza di una diversa interpretazione-ricostruzione del sistema, secondo cui l'operativita' dell'art. 7, comma 3 della legge n. 219/1989 citata varrebbe solo per le intercettazioni dirette di conversazioni del Capo dello Stato (come ritiene il Pubblico Ministero della Procura di Palermo). Va ribadito, infatti, che, nel caso di specie, e' sufficiente la portata dell'immunita' derivante, secondo quanto argomentato in precedenza, dall'irresponsabilita' prevista dall'art. 90 della Costituzione per orientare in senso ad essa conforme l'interpretazione dell'insieme delle norme in materia di utilizzazione delle intercettazioni, ritenendo quindi pienamente applicabile alle intercettazioni di conversazioni del Presidente della Repubblica soltanto l'art. 271 del c.p.p. Tanto premesso, nel caso in esame, sussistono precisi elementi oggettivi di prova del non corretto uso del potere giurisdizionale. Essi sono l'aver quantomeno registrato le intercettazioni nelle quali casualmente e indirettamente era coinvolto il Presidente della Repubblica, unitamente alle circostanze (pacifiche e non contestate) che il testo delle telefonate e' agli atti del processo e che ne e' stata addirittura valutata l'(ir)rilevanza e, soprattutto, che si ipotizza lo svolgimento di un'udienza secondo le modalita' indicate dall'art. 268 c.p.p. (trascrizione integrale delle intercettazioni, previa valutazione dell'irrilevanza; facolta' dei difensori di estrarne copia e udienza c.d. stralcio; autorizzazione del G.I.P. sentite le parti) per ottenerne l'acquisizione o la distruzione: procedimento che, come si e' detto, non e' applicabile alla fattispecie, perche' produrrebbe un grave «vulnus» alle prerogative del Presidente della Repubblica, operando senza tenere di esse alcun conto e alterando in concreto e in modo definitivo la consistenza dell'assetto dei poteri previsti dalla Costituzione. (1) Sin dalle prime pronunce in materia la Corte costituzionale ha ritenuto decisivo per ammettere la legittimazione dei singoli giudici il fatto che essi, da una parte, esercitano le proprie funzioni giurisdizionali in una condizione di indipendenza costituzionalmente garantita e, dall'altra, pongono in essere atti che, pur non essendo necessariamente definitivi, sono idonei a «impegnare» il potere cui appartengono. In particolare, il Pubblico Ministero e' stato considerato potere dello Stato quando il conflitto, come accade nel caso di specie, e' correlato all'esercizio dell'azione penale, sulla base delle competenze costituzionalmente attribuite a tale organo ex art. 112 Costituzione (sentenze n. 216 e 420/95; n. 410/98 e 232/2003 citate). (2) L. Paladin, Presidente della Repubblica. Enc. Diritto, Giutfre'. 1986, vol. XXXV, pagg. 221 e segg. (3) V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Studi per Crosa, vol. I (4) A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, vol. 1. p. 357. La dottrina insiste particolarmente sul valore della irresponsabilita' ex art. 90 Cost. ai fini di dedurne la funzione presidenziale di garanzia della Costituzione. (5) Rossano, «Il Presidente della Repubblica», Enc. Giur. Treccani 2007, vol. 24, p. 2 (6) La maggioranza assoluta per la messa in stato di accusa del Presidente della Repubblica e' stata introdotta su proposta del prof Mortati al dichiarato fine di preservare l'indipendenza dell'Organo, Comm, della Cost., a cura di G. Branca, Art. 90, L. Carlassare, pag. 154. (7) Osservo' in proposito il Ministro della Giustizia nel corso della seduta del Senato del 7 marzo 1997 - e sul punto l'intera Assemblea convenne - che «essendo la liberta' di comunicazione e di corrispondenza un connotato essenziale dell'esercizio delle funzioni del Presidente della Repubblica, appare ovvio ritenere che la liberta' e la segretezza delle comunicazioni e conversazioni del Presidente della Repubblica non possano essere soggette ad alcuna limitazione. L'ovvieta' di tale affermazione, che discende gia' dalla interpretazione sistematica delle norme che regolano la posizione e le attribuzioni costituzionali della figura istituzionale del Presidente della Repubblica, imporla che la liberta' di determinazione e comunicazione non possa subire alcuna limitazione neppure da parte di altra autorita'. Non si tratta di un privilegio della persona ma della conseguenza della collocazione istituzionale»